Due secoli equitazione
Per mettere un poco di ordine nella confusione equestre di questi tempi è necessario ritornare alle radici dell’equitazione moderna.
Essa è nata dalla Scuola Napoletana (Grisone, Pignatelli) poi confluita in quella francese che diede De La Guérinière e D’Abzac e produsse, dopo una revisione in chiave naturale del genio napoleonico, il Conte D’Aure vero caposcuola dell’equitazione classica quando questa cominciò a doversi confrontare con gli impegnativi ostacoli naturali che s’incontravano nelle partite di caccia alla volpe od al cervo molto in voga nell’ ‘800.
I suoi principi equestri erano basati sull’opposizione della mano all’impulso (tensione dorsale determinata dalla spinta dei posteriori in avanti) allo scopo di ottenere l’equilibrio del cavallo, necessario per saltare, attraverso la flessione delle articolazioni posteriori: questa infatti poteva determinare l’abbassamento delle anche ed, attraverso di esso, il riequilibrio della struttura fisica del cavallo (orientata naturalmente in discesa verso le spalle).
L’assetto prevedeva il cavaliere seduto d’appiombo, le reni elastiche per poter seguire i movimenti del cavallo, la testa alta, le spalle aperte e non indietro, le coscie ben discese con la tendenza a fermare le ginocchia abbassandole, anche attraverso la discesa delle gambe e la spinta dei talloni in basso. In questo modo l’assetto si ferma e può consentire alla mano di tenere l’equilibrio senza tirare.
Grande rilievo veniva dato all’assieme tra cavallo e cavaliere che consentiva, per la prima volta dopo Senofonte, di dare grande importanza alla responsabilizzazione del cavallo nell’utilizzo della sua meccanica per esaudire le richieste del cavaliere.
Steinbrecht, grande caposcuola tedesco, utilizzerà gli stessi concetti consigliando nella preparazione dei cavalli un lungo periodo di “lavoro su strada” allo scopo di insegnare ad essi a gestire autonomamente il loro equilibrio.
L’utilità del lavoro su strada discendeva dalla necessità, da parte dei cavalli, di salvaguardare i talloni anteriori sul terreno duro: di qui la tendenza a trattenere in sè il proprio baricentro. Ma non si teneva conto delle gravi conseguenze sulle strutture podali di una tale pratica.
Finalmente, alla fine dell’ ‘800, un Capitano di Cavalleria, Federico Caprilli, già padrone della teoria del D’Aure, comprese attraverso l’osservazione di un cavallo che saltava scosso che questo aveva bisogno di utilizzare tutta la sua linea dorsale e che il salto era soltanto una manifestazione ingrandita della meccanica che il cavallo utilizza naturalmente per muoversi alle sue andature, segnatamente al galoppo.
Vide che il cavallo impiegava l’incollatura come noi usiamo il movimento delle braccia e che il ponte di trasmissione della spinta dalle articolazioni posteriori era rappresentato dalle reni del cavallo. Si chiese quindi come avrebbe potuto il cavaliere assecondare e, di conseguenza, facilitare la meccanica del cavallo salvaguardandone i punti fondamentali con evidenti effetti sulla sua psicologia (impulso): l’utilizzo dell’incollatura ed il rispetto delle reni.
Pensò quindi ad un assetto non più legato al cavallo (concetto statico) ma al suo movimento (concetto dinamico) non più limitato al lavoro in maneggio ma anche e soprattutto al salto di grandi ostacoli ed in dislivello.
Inventò quindi genialmente un assetto non più seduto d’appiombo soltanto, ma basato sull’appoggio dei piedi sulle staffe utilizzando le stesse non soltanto per fermare l’assetto ma anche per consentire al cavaliere di assecondare l’equilibrio (baricentro) del cavallo anche nei grandi spostamenti: il risultato deve essere la capacità di effettuare la ceduta che, partendo dalla spinta sulle staffe sale per la parte posteriore dei polpacci, arriva al bacino, sale per le reni ed arriva alle braccia del cavaliere che debbono consentire alle sue mani di concedere la libertà al cavallo di esprimere totalmente la spinta che è stata immagazzinata dalle stesse mani mantenendo l’equilibrio.
Carlo Cadorna
fonte. wwwlastriglia.com
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